Recitare o Essere |
Il paradosso è molto complesso: un uomo che non è un attore, su un palcoscenico non sarebbe credibile, potrebbe sembrare che “reciti”: i suoi mezzi espressivi non sono all’unisono con quelli del mondo circostante. La sua figura è dissonante rispetto allo sfondo. Per essere credibile, egli deve recitare, ma deve farlo con verità, altrimenti i sentimenti che esprimerà saranno sentimenti fasulli, plastificati, posticci, e il risultato ridicolo.
Allo stesso modo, nella vita quotidiana egli potrà sperimentare un’altra verità, il cui senso sarà legiferato dalla struttura significante del mondo della quotidianità. I due mondi sono entrambi reali, ma diversi.
Sperimentare il palcoscenico vuol dire sperimentare la sensazione che l’esistenza sia appesa al significato fenomenico del qui e ora: l’attore che recita, vive. Egli può esistere esclusivamente in quella forma. Fuori da quella forma, c’è la sua morte. Questo non è un sollecitamente a recitare nella vita, tutt’altro. Si può recitare solo sul palcoscenico, e ciò che si recita è la verità
Il giovane attore di solito non è un buon attore, in quanto capace soltanto di imitazioni. Soltanto dopo l'attore impara a recitare se stesso, ad intenzionare i suoi personaggi con la sua verità, e soltanto in quel momento quei personaggi acquistano un'anima, che è l'anima del'attore stesso che si fa personaggio.
Ognuno di noi ha dentro di sé tutti i personaggi possibili. Deve solo trovarli, conoscerli, esprimerli. Sono le nostre infinite parti, alcune conosciute, altre sconosciute, altre ancora represse o rimosse,che si declinano nelle forme archetipiche raccontate nelle storie da recitare.
Facendo un parallelo con la vita quotidiana, vediamo che non vi è molta differenza, se non nella forma. Quanti di noi imitano e non sono? Quanti sono concentrati su come essere, anziché essere e basta? Come l'attore che recita il personaggio, anziché essere il personaggio, anche noi rischiamo di essere dei pessimi "noi stessi" quando recitiamo il nostro personaggio.
Ognuno è un piccolo universo che ha un suo scheletro esistenziale, e che esprimerà la sua natura in modo unico; a patto che lo faccia, senza frapporre fra sé e il mondo un “carattere” sclerotizzato. Il carattere può funzionare, anzi è spesso segno di consenso sociale. Ma è comunque sempre una gabbia immutabile: vedi per esempio –per tornare al teatro- i “caratteristi”. Essi possono godere di grande popolarità, ma restano imprigionati dal loro stesso personaggio, e non possono essere null’altro.
E allora, come insegna la cara Psicologia Umanistica, visto che non abbiamo scelta, non ci resta che essere. Anzi, esser-ci.
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